La vita professionale del Professor Christos Hadjichristos attraverso i cambiamenti nella Psichiatria Italiana


Dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università “Sapienza” di Roma, nel 1967 mi iscrissi alla Scuola di Specializzazione in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali della stessa Università; allora, il Direttore era il professor Mario Gozzano.

Cosa l’ha portata ad intraprendere il percorso di specializzazione in Neuropsichiatria?

La “scelta” della Neuropsichiatria fu effettuata al termine della Facoltà di Medicina, anche grazie alla fortuita conoscenza di colui che diventerà poi mio grande amico e collega, il futuro Professor Andreas GiannaKoulas, purtroppo scomparso nel 2020. La nostra collaborazione e la frequentazione per anni furono un momento profondamente formativo per entrambi. L’amicizia era talmente profonda che quando, negli anni ’70, il collega rientrava da Londra ogni mese (ricordiamo che Giannakoulas fu l’ultima persona vivente ad aver lavorato con Anna Freud, M. Klein,  D.W. Winnicott e a tanti altri della Tavistock of London) spesso era ospite a casa mia.

Durante la specialità, poi, frequentai con assiduità i reparti, la mia “curiosità” e la voglia di apprendere il più possibile mi portò a trascorre la maggior parte delle giornate nelle corsie dei reparti di Neurologia e di Psichiatria.

Erano gli anni della rivoluzione culturale e dei movimenti del 1968: Nella Clinica delle Malattie Nervose e Mentali in quel periodo erano presenti i più grandi Maestri che hanno fatto la Storia della Psichiatria (campo dal quale ero molto attratto). Solo per citare alcuni nomi: I professori Bruno Callieri, Giancarlo Reda, Gaspare Vella, Sebastiano Fiume, Luigi Frighi, oltre ai colleghi dei corsi precedenti al mio: Nicola Ciani, Tommaso Losavio, Pier Luigi Scapicchio, Luigi Cancrini, Marisa Malagoli Togliatti, Nicola Lalli, Alberto Gaston e tanti altri. Ognuno di loro ha avuto successivamente un ruolo importante nel panorama della Psichiatria italiana.        

Ebbi la fortuna di lavorare con ognuno di loro: seguivo con molta attenzione la discussione dei “Casi clinici” e cercavo di captare da ognuno di loro una parte del loro “sapere”. Quanta nostalgia per le riunioni che si tenevano al termine del giro del reparto! Ogni singolo paziente veniva studiato da ogni punto di vista: psicopatologico, fenomenologico, psicodinamico. Imparai presto che solo una diagnosi attenta e precisa porta ad una corretta terapia.

Come proseguì la sua vita professionale?

Portai con me questo bagaglio culturale nella mia prima esperienza lavorativa presso la Clinica psichiatrica “Villa Armonia” dove in poco tempo diventai un punto di riferimento.

Nel mio corso di Specializzazione conobbi una collega suora appartenente alla Congregazione “Casa della Divina Provvidenza”. Mi parlò di una realtà che fino ad allora non conoscevo: L’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria Immacolata” di Guidonia,  che faceva parte di un colosso creato dalla Congregazione che gestiva le istituzioni psichiatriche manicomiali del sud-Italia. L’Istituto di Guidonia ospitava circa 1.200 ricoverati e l’intero gruppo costituito da quattro Istituti ospitava circa 5.000 pazienti psichiatrici.

Questa suora volle a tutti i costi che andassi a lavorare in quello che, successivamente, venne chiamato Ospedale Psichiatrico, ma che in realtà era un Manicomio.

Era in vigore la Legge del 1904 che regolamentava l’organizzazione di Istituti nati per “raccogliere” tutte le persone che erano “pericolose per sé e per gli altri” o che “costituivano pubblico scandalo” che dovevano essere custodite, quindi non un luogo di cura, ma di custodia e sorveglianza.

Provenendo da esperienze ovattate ed elitarie, l’impatto con quella realtà fu molto duro: mi trovai di fronte ad una commistione di pazienti schizofrenici, cerebropatici, oligofrenici, arteriosclerotici (oggi diremmo dementi), alcolisti, barboni. Insomma, erano i “matti”, il ricettacolo dell’esclusione sociale. Quello di Guidonia era considerato un “cronicario”. Molti ricoverati erano trasferiti da altri Manicomi (tra cui Santa Maria della Pietà di Roma) perché considerati “irrecuperabili”.  Di loro, della loro storia, non si conosceva nulla: poche, stringate righe nella relazione di trasferimento. Di molti non si conosceva neanche l’anno di nascita, nella relazione era semplicemente scritta l’età (che risaliva a quando?). Erano persone prive di identità.

Con la preziosa collaborazione delle assistenti sociali iniziammo a “recuperare” i dati anagrafici dei ricoverati ed a ricostruire le loro storie.

Parallelamente all’attività nei reparti, continuava il suo impegno nello studio e nella ricerca clinica

Esattamente. In quegli anni con i colleghi Losavio, Scapicchio, Baroni e Tramontana, coordinati dal professor Gaspare Vella,  pensammo di verificare statisticamente quanto il decorso della schizofrenia nei suoi esiti fosse condizionata dall’istituzionalizzazione. Analizzammo 325 pazienti schizofrenici di entrambi i sessi e con almeno 10 anni ininterrotti di ricovero. I risultati, analizzati statisticamente da A. Serio, vennero pubblicati da “Il Pensiero Scientifico” in un libro dal titolo “Gli esiti della Schizofrenia”.

Continuavo a lavorare nella clinica privata dove venivano ricoverati pazienti in fase acuta ed ero diventato il responsabile delle terapie, ma sempre più chiaramente comprendevo che il mio impegno di psichiatra non poteva ignorare quella realtà che avevo toccato con mano in quei giorni di frequentazione del Manicomio.

La mia vita professionale si divideva tra quelle che, all’epoca, venivano definite “piccola psichiatria” e “grande psichiatria”.

Come iniziò il cambiamento all’interno della “Grande Psichiatria”?

Entrare nei reparti e vedere che molti pazienti erano legati (oggi diremmo contenuti) con lembi di lenzuola al letto, alle panche e a volte ai termosifoni, alcuni con la camicia di forza, ebbe un impatto così rilevante che decisi di iniziare con quello che mi sembrava l’intervento prioritario: Dividere i pazienti in reparti separati in base alla loro patologia. Per fare questo, trascorrevo molto tempo all’interno dei reparti, in realtà enormi stanzoni che fungevano da soggiorno e refettorio, mentre i dormitori erano ai piani superiori. Cercai innanzitutto di conquistare la fiducia dei pazienti, ma soprattutto la fiducia del personale addetto alla “custodia” ed all’assistenza.

Fu necessario molto tempo e molto impegno per modificare l’approccio del personale nei confronti dei malati. La paura che avevano si percepiva e nessuno si avvicinava a loro se non per difendersi. I soggiorni ed i dormitori erano spogli, le panchine, nelle cosiddette palestre (cortili all’aperto recintati), erano fissati al pavimento. Ogni oggetto era considerato pericoloso: Ai ricoverati per mangiare era concesso un cucchiaio che serviva per qualunque cibo.

La legge del 1904 “Sui Manicomi e sugli alienati” sanciva l’obbligo di custodia, i ricoverati venivano automaticamente dichiarati incapaci di intendere e di volere e sottoposti a tutela, perdevano  ogni diritto civile ed il ricovero veniva registrato nel casellario giudiziario e nell’estratto dell’atto di nascita.

In realtà, la normativa in materia di salute mentale aveva già subito un cambiamento con la legge n. 431 del 1968 che rendeva possibile il ricovero volontario e l’abolizione della registrazione nel casellario giudiziario.

In quell’anno iniziava l’esperienza di “negazione istituzionale” di Franco Basaglia a Gorizia, seguito da altre realtà manicomiali in varie città italiane.

Questo clima di cambiamento rafforzò le mie convinzioni sulla necessità di umanizzare le dinamiche assistenziali all’interno dei reparti.

Quali furono i primi cambiamenti concreti che riuscì ad istituire?

Nel 1972 assunse l’incarico di Direttore Sanitario il professor Bruno Callieri, un grande nome nel panorama della Psichiatria e mio grande Maestro già negli anni della specializzazione.

Ebbi la sua fiducia ed il suo sostegno in tutti i cambiamenti che continuavo ad apportare.  A Lui va tutta la mia gratitudine per avermi sostenuto anche contro la parte più conservatrice del corpo sanitario.

Così iniziai a “liberare” i pazienti dalle contenzioni incontrollate. Istituii un registro in cui il personale addetto all’assistenza doveva annotare il motivo della contenzione che doveva essere di volta in volta autorizzata dal medico.

Anche se già dalla fine degli anni Cinquanta erano stati introdotti i primi psicofarmaci, nei Manicomi si continuavano ad utilizzare prevalentemente le terapie biologiche come la piretoterapia, l’insulinoterapia, l’elettroshokterapia.

L’esperienza che avevo maturato in clinica privata con pazienti acuti fu utile per iniziare ad utilizzare gli psicofarmaci anche con i pazienti cosiddetti “cronici”. L’utilizzo di tali terapie mi aiutò nell’opera di “liberalizzare i matti”.

Dopo 6 mesi, il numero dei pazienti contenuti si era ridotto della metà e dopo 1 anno si erano quasi azzerati.

All’interno del padiglione, che ospitava circa 380 ricoverati suddivisi in 7 reparti, c’era la barberia situata nello stesso corridoio ma non era frequentata da nessuno: C’era tanta diffidenza, tanta paura, ma chi aveva paura di chi?

Iniziai io stesso: Mi misi seduto sulla poltrona del barbiere e mi feci tagliare i capelli: Piccola cosa che ebbe però in poco tempo l’effetto sperato. Portai addirittura anche mio figlio, Aristotele, che all’epoca era un bambino di 6/7 anni. Bastarono pochi giorni e l’esempio venne seguito dai ricoverati ormai liberi di uscire dai reparti le cui porte erano aperte, anche se solo sul corridoio del padiglione.

Era il primo passo per poter tentare l’apertura del padiglione verso l’esterno!                                        

Un altro profondo cambiamento riguardò le uscite dal padiglione per i viali dell’enorme parco nel quale era situato il manicomio. I ricoverati uscivano in “gregge”, con il controllo di 2 “custodi”.

Perché non invertire il sistema? Disposi, quindi, che nei viali ci fossero degli infermieri che, passeggiando, “sorvegliavano a distanza” i ricoverati che liberamente uscivano a fare la loro passeggiata, singolarmente o in piccoli gruppi.

Come era organizzato il Manicomio e come modificò tale realtà?

Come tutti i Manicomi anche quello di Guidonia era una piccola cittadina dotata di tutti i servizi. C’era il forno, la macelleria, la lavanderia, una colonia agricola, una vigna, un allevamento di animali, un bar (che divenne successivamente un Centro Sociale). Inoltre, il Manicomio, nella sua totale autosufficienza, ospitava una Sala Operatoria, la Radiologia, il Laboratorio Analisi e gli Ambulatori dove si alternavano i Consulenti di diverse specializzazioni. Ciò seguiva la logica della “pericolosità” dei ricoverati e la totale autosufficienza del Manicomio era necessaria per garantirne la custodia.

Molti ricoverati vennero inseriti in questi servizi sulla base delle loro capacità: alcuni vennero inseriti nella lavanderia, in cucina, nel bar, nell’orto, nell’allevamento degli animali. In questo modo occupavano il loro tempo e ricevevano anche un piccolo compenso mensile necessario per l’acquisto di sigarette e generi di conforto. Era l’embrione di quella che divenne successivamente “terapia occupazionale”.

Sulla scia di quanto avveniva nelle altre istituzioni psichiatriche incominciai, insieme ai colleghi, a tenere le assemblee di reparto. Partecipavano i ricoverati ed il personale addetto all’assistenza: I ricoverati potevano finalmente “avere diritto di parola”, fare timidamente le loro richieste e successivamente usufruire di programmi di risocializzazione.

Pur ricoprendo il ruolo di Aiuto-Primario, avevo il pieno appoggio dei miei due Primari che si sono succeduti in quegli anni: il professor Adolfo Petiziol ed il dottor Mario Di Lecce. Ebbi da entrambi “carta bianca”.

Finalmente, a Maggio del 1978, il Parlamento approvò la Legge 180 che imponeva la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici per la nuova utenza, valorizzando la volontarietà del paziente, eliminando definitivamente il concetto di pericolosità ed invertendo la priorità tra custodia e terapia. Cosa successe allora?

Dall’emanazione della Legge alla sua applicazione furono necessari molti anni. I legami familiari si erano dissolti nel tempo, il contesto territoriale dal quale i pazienti provenivano era a loro sconosciuto, così come era a loro sconosciuto il mondo esterno all’istituzione. Molti di loro erano stati ricoverati in età molto giovane e da allora erano passati molti anni.

Alla fine degli anni ’70,  il professor Bruno Callieri lasciò l’Ospedale e nel 1980 assunse la Direzione Sanitaria il Professor Pier Luigi Scapicchio, mio amico fraterno, che era stato uno dei promotori ed estensori della Legge 180.

Con lui continuai in totale sincronia l’opera di cambiamento dell’Istituzione psichiatrica.

Nel 1982 divenne Primario.

Esattamente. Ebbi l’incarico e continuai con i colleghi che si sono avvicendati nel padiglione, il lavoro ormai impostato ma che necessitava di ulteriori passaggi.

Sempre con il prezioso e capillare lavoro delle assistenti sociali i ricoverati ebbero finalmente la Carta d’Identità ed il Codice Fiscale, documenti necessari per presentare la richiesta dell’Invalidità Civile con il relativo assegno: fu un ulteriore passo per il riconoscimento ufficiale di cittadini a tutti gli effetti.

Con la collaborazione del Sindaco riuscimmo ad ottenere, all’ingresso dell’Ospedale, un seggio elettorale che permettesse ai pazienti di votare nelle elezioni sia politiche che amministrative. La maggior parte delle schede vennero annullate, ne eravamo consapevoli, ma contava il gesto, non il voto!

Prima di pensare ad un inserimento in un contesto diverso dall’istituzione era necessario uscire all’esterno: Iniziammo, così, ad organizzare delle attività di socializzazione: Feste con musica e ballo, feste di carnevale in maschera, gite al mare, ecc. Costituimmo anche una squadra di calcio (all’interno del grande parco dell’Ospedale esisteva anche un regolare campo sportivo, fino ad allora inutilizzato) ed organizzammo dei tornei con le squadre di calcio dei Centri di Salute Mentale di Roma che prevedevano delle vere trasferte.

La gioia dei pazienti mentre salivano sul pullman per attraversare le strade della città mi commuove ancora.  

I pregiudizi nei confronti dei malati psichiatrici e del luogo che li aveva tenuti reclusi per tanti anni richiedevano un’azione forte che modificasse l’approccio culturale.

Ormai erano in tanti a credere in questa opera di riconversione. Con i colleghi ed un gruppo di operatori sanitari e personale addetto ai vari servizi all’interno dell’Ospedale, si creò un gruppo spontaneo che con grande entusiasmo diede vita a numerose iniziative.

Per esempio?

Sarebbero tante le iniziative da raccontare per l’impatto che ebbero sia all’interno che all’esterno.

Negli anni 1985/86 fu organizzato, nel parco dell’Ospedale, un Presepe vivente ed una Via Crucis con la partecipazione di pazienti ed operatori che nel loro ruolo di “attori” non si distinguevano gli uni dagli altri. Si lavorava tutti insieme per mesi per costruire ed allestire le scene, confezionare gli abiti e le calzature.

In occasione del Carnevale negli stessi anni, partecipammo alle sfilate dei carri di allegorici di Tivoli e dei paesi limitrofi con un carro costruito sempre da operatori e pazienti.

Ricordo ancora la folla di cittadini commossi che venivano a vedere le rappresentazioni e non i “matti”: Per la prima volta il mondo esterno entrava nel “Manicomio”.

Tra le altre iniziative istituii un cartellino identificativo per ognuno dei pazienti che, per le loro condizioni psichiche, erano in grado di uscire nel territorio circostante. Erano riportate le generalità e la loro residenza con l’indirizzo dell’Ospedale.

Ci racconta qualche aneddoto a riguardo?

Ne citerò uno per tutti: Una sera due pazienti che si erano recati a Roma per vedere la grande città avevano perso l’ultimo autobus per poter rientrare. Chiesero aiuto ad una volante della Polizia, mostrarono il loro cartellino e vennero orgogliosamente riaccompagnati dai poliziotti.

Ci furono, ovviamente, anche momenti di apprensione e di preoccupazione: Un paziente, che aveva riacquistato la sua libertà ed era libero di uscire dall’Ospedale spesso, si recava presso la sua famiglia, ma un giorno non fece ritorno. Dopo qualche giorno fu trovato morto a Castelfusano, si era suicidato. Con grande sorpresa, successivamente venne a trovarmi il fratello (un Magistrato), per ringraziarmi di aver restituito a suo fratello la dignità di essere umano e di avergli fatto vivere  l’ultimo periodo della sua vita in maniera “normale”.

Furono gli anni degli psicofarmaci di “nuova generazione”?    

Sì, e la loro introduzione fu di grande aiuto: Farmaci efficaci e privi dei tanti effetti collaterali che hanno gli psicofarmaci di vecchia generazione.

Ricordiamo che dobbiamo a Lei l’inserimento in Italia, tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, grazie a studi controllati di alcuni nuovi antipsicotici (tra cui il Risperidone) e soprattutto il reinserimento della Clozapina nel nostro Paese, farmaco assolutamente essenziale nella cura della Schizofrenia, e a tutt’oggi ancora non superato come efficacia nelle forme resistenti. Cosa successe poi?

 A questo punto c’era da affrontare il passo successivo.

Con grande orgoglio, ricordo i complimenti che, insieme al mio gruppo, ricevemmo dal compianto Franco Basaglia in occasione della visita che fece al fine di verificare lo stato di attuazione del processo di trasformazione dell’Ospedale Psichiatrico.

La Riforma Psichiatrica prevedeva la deistituzionalizzazione dei ricoverati ed il loro inserimento nel territorio di provenienza in collaborazione con i Centri di Salute Mentale. Prevedeva la possibilità di dare una diversa e più efficace risposta alla cosiddetta “area della cronicità”, che riguarda i pazienti istituzionalizzati, il cosiddetto “residuo manicomiale”. Si parlava di “strutture intermedie”: strutture residenziali e semiresidenziali, comunità protette all’interno ma al di fuori delle mura manicomiali, comunità alloggio, gruppi appartamento.

Insieme ai miei collaboratori cercai di evitare le “dimissioni selvagge”: Pochi erano i pazienti che avevano ancora una famiglia in grado di accoglierli e di assisterli.

Trasformammo uno dei padiglioni dell’Ospedale sul modello di una comunità: con una ventina di ricoverati organizzammo una realtà di autogestione. Era presente un solo infermiere mentre tutta la gestione era demandata a quelli che ormai erano diventati ospiti, semplicemente coadiuvati dall’équipe terapeutico-riabilitativa. Le riunioni quotidiane erano il fulcro della vita della comunità.

Arrivare alla deospedalizzazione prevista dalla Legge 180 non era facile perché era difficile sradicare gli “ospiti” da una realtà che conoscevano bene, per inserirli in un contesto diverso, anche se migliore. Le resistenze, infatti, furono tante.

La Legge 180 arrivò finalmente al momento della reale attuazione: il Progetto-obiettivo “Tutela della Salute Mentale 1998-2000 – Ministero della Sanità”, tra le altre, disponeva l’istituzione di strutture residenziali che potevano accogliere non più di 20 persone, collocate in contesti urbani, facilmente accessibili e che favorissero lo scambio sociale.

Iniziò infatti una nuova avventura: La ricerca, nei contesti urbani del territorio circostante, di immobili adeguati e la cura dell’arredamento che fosse il più possibile somigliante ad una privata abitazione. La selezione dei pazienti venne fatta attraverso riunioni di reparto nelle quali si cercava di farli partecipare attivamente anche nella scelta del proprio compagno di stanza. Ognuno di loro diede il suo contributo nel personalizzare il più possibile la loro “nuova” abitazione.

Molto lavoro fu necessario per far accettare ai “vicini di casa” la presenza dei “matti”. Ci furono delle proteste, alcuni chiesero ai Sindaci (con i quali era stato fatto un precedente lavoro di sensibilizzazione) di impedire l’apertura di quelle Comunità.

In realtà, poi, bastarono poche settimane per far ricredere anche i più scettici.

In 2 anni riuscimmo ad aprire quattro Comunità di Convivenza ed inserire circa 80  ospiti.

Impararono ad occuparsi della pulizia degli ambienti nei quali vivevano, a fare il bucato, stirare, fare la spesa, aiutare la cuoca e tutte le attività della vita quotidiana che ogni persona “normale” svolge.

La loro vita era una scoperta continua: Lo stupore negli occhi di Maria entrando con un’operatrice in un supermercato per fare la spesa: sembrava Alice nel Paese delle Meraviglie! Giorgio ed Angela, che avevano già in precedenza una simpatia reciproca, finalmente vivevano nella stessa casa. Successivamente “spiccarono il volo”: riuscimmo a fargli avere dal Comune di Tivoli un piccolo appartamento ed andarono a vivere insieme. Luciano, persona solitaria che trascorreva la maggior parte del tempo nella sua stanza, spesso prendeva l’autobus e si assentava per l’intera giornata. Una mattina l’operatore che era in servizio riferì che Luciano la sera precedente non era rientrato. Sgomento Generale! Rientrò dopo diversi giorni. La mattina successiva al suo ritorno mi accolse con una scatola di sigari cubani e, facendomi promettere di non svelare a nessuno quel segreto, mi raccontò di essersi recato a Cuba! Nei giorni in cui si assentava aveva chiesto ed ottenuto il passaporto, aveva fatto il biglietto aereo, si era recato in aeroporto, aveva preso l’aereo! Tutto in totale autonomia. Dov’era Luciano che avevamo conosciuto molti anni prima in Manicomio?

Gli episodi da raccontare sarebbero tanti! Tutti hanno come comune denominatore il percorso di umanizzazione iniziato molti anni prima e la relazione di fiducia reciproca che avevo instaurato con ognuno di loro.

Nel 2002, avendo maturato gli anni per il pensionamento, il mio lavoro era concluso! Non fu facile lasciare quelli che ormai consideravo i miei amici e da cui ero considerato il “loro” miglior amico!

Ricordiamo anche la cooperazione con il collega scomparso nel 2021, Paolo Decina, anche lui psichiatra emigrato negli USA negli anni ’70, con il quale, oltre a vari progetti, avevamo iniziato in Italia un “Cooperation Study” con il Prof. Alexopoulos e la Cornell University di NY(USA) sulla depressione in età geriatrica, con registrazione del “braccio” Italiano all’NIMH, studio condotto in Italia dal figlio Aristotele (1996-97).

Continuai la mia attività da libero professionista presso il suo studio ma, pur amando profondamente il mio lavoro ed il rapporto con i pazienti, avevo ancora bisogno di trasmettere la mia esperienza a giovani professionisti che vedevo “assetati di sapere”.

Insieme a mio figlio Aristotele, creai presso il mio studio, in via Fasana 21, il CENTRO CLINICO INTEGRATO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA - C.I.Psi Clodio, un centro integrato di psichiatria e psicologia composto da una équipe di psichiatri, psicologi e psicoterapeuti che operano nell’intervento e nella prevenzione del disagio psichico all’interno di vari settori e secondo un approccio integrato al trattamento e alla cura.

Grazie alla sua équipe diversificata, si occupa di qualunque disagio o disturbo psicologico e relazionale in adulti, adolescenti, preadolescenti, bambini, coppie e famiglie, con una particolare specializzazione nel Disturbo Bipolare dell'umore.

Sono inoltre presenti una sezione dedicata all'area peritale forense e una alla valutazione clinica mediante l'uso dei test scientificamente più validi di cui dispongono le neuroscienze.

 

Cosa offre:

·       Valutazione psicodiagnostica

·       Consulenza psichiatrica e trattamento farmacologico

·       Consulenza psicologica per l'adulto, l'adolescente e il bambino

·       Consulenza psicologica per la coppia e la famiglia

·       Psicoterapia individuale, di coppia, di gruppo ad orientamento psicoanalitico o cognitivo-comportamentale

·       Psicoeducazione individuale e per la famiglia

·       Terapia sessuale individuale e di coppia